PREFAZIONE DEL PROF. VINCENZO CASILLO
La bellezza del frammento, un elogio di
Giuseppe Peluso...
Son
tempi maledetti questi, giorni ed ore inabitati dalla percezione, ahimè,
devastante del male che sembra prevalere dentro ed intorno alle nostre miserabili
esistenze.
La
mano fa fatica a scrivere e la parola esce parca ed ingrata.
Pur
tuttavia, trovo qualche minuto di minore sofferenza per tessere l'elogio di
Giuseppe Peluso, un uomo in cui il frammento storiografico assurge ad arte.
Con
vero piacere dello spirito ho letto le brevi note che il nostro ci ha donato in
relazione alla strana storia del "Mannese".
Cosa
dire, nel pur breve racconto suffragato dalle rimembranze di Genny Casella rivive
il colore locale di una comunità umana che non è più, ma le cui vicende hanno
lasciato un'impronta indelebile nelle menti dei protagonisti.
Insieme
si viveva, insieme si gioiva, insieme si soffriva: questo rendeva uomini e
donne.
Ora,
che il nostro reo tempo ed il nostro individualismo esasperato ci hanno
consegnati alla più bieca delle solitudini umane ed esistenziali, si affronta
tutto con indicibile difficoltà.
Dio non voglia abbandonare l'opera delle sue mani...
(Enzo V. Casillo)
C’era una volta .… a Pozzuoli
Fino a tutti gli anni cinquanta la chiesa di
San Marco costituisce di fatto, per noi puteolani, il confine tra centro urbano
e periferia.
Qui terminano via Sacchini e via Roma che, convergendo,
proseguono come strada provinciale; l’antica via Miliscola che continua tra il paese
che sta finendo, la campagna che sta iniziando e il cantiere che sta
devastando.
Villa Maria, con le sue tre moggia di terreno coltivato da Menechiello, patriarca della Famiglia Biclungo, e con le sue mucche, allevate da Vittorio della Famiglia Perrotta, ancora mostra la sua vocazione agricola.
Poco oltre il macello comunale, e il mulino dei
Mirabella, c’è un cavone che si spinge fin sotto la ferrovia Cumana; qui troviamo
una stalla con qualche mucca di “Totonno ‘u lattar” e centinaia di colombi, qui concentrati per i residui di grano
del mulino, che nidificano nei vuoti delle pietre di tufo.
Nello stesso cavone è sempre forte l’odore acre
proveniente dagli zoccoli di cavallo bruciati poiché c’è la baracca di “Tommaso
o sferracavallo”.
E’ questo un maniscalco, figlio di Attilio, ricordato
per essere stato il padre di Giuseppe, un vigoroso e bravissimo ragazzo, da
tutti conosciuto come “Peppe Maciste”.
Poco oltre ancora un vicoletto il cui ingresso è seminascosto tra due edifici, il secondo del quale allora come oggi ospita il deposito di Barca, “o’ schiattamuort” [1].
Imboccando questa stretta “calle”, entro la
quale prosegue la numerazione civica, ci ritroviamo in un cortile attorno al
quale s’è creato, come racconta Genny Casella, un piccolo borgo.
In Italia meridionale, soprattutto in Campania,
luoghi come questo sono definiti “vanella”; ovvero “piccolo atrio ai lati o
alle spalle di uno o più fabbricati”.
Questa “vanella” è un agglomerato di casupole
attorno ad una corte comune che permette di aggirarsi tra stalle, baracche, galline,
botteghe artigiane, bassi e signorili abitazioni poste ai piani alti. Un mondo sperduto,
sconosciuto a chi non è del luogo, una vera “corte dei miracoli”, misteriosa e
per certi versi paurosa.
Oggi varie fabbriche sono state abbattute e l’ampio spazio ricavato è per gran parte adibito a parcheggio; ma al tempo dei ricordi, al tempo dei fatti che narreremo, il luogo è colmo di tuguri ma traboccante di vita [2].
A destra un alto muraglione ne delimita il
confine col “cavone”, il nominato vicolo cieco che divide questa “vanella” dall’agglomerato
costituto dal Mulino dei Mirabella.
Di fronte un fabbricato è addossato al grosso terrapieno
di contenimento che sostiene la trincea in cui transita la Ferrovia Cumana.
A sinistra ancora qualche altra casupola proprio
sul muro confinario che separa questa corte da un'altra appartenente alla attigua
proprietà Gentile; ultimo fabbricato pima della “lava”, ovvero del “Vallone
Cordiglia”.
Tonando nella “vanella” di quegli anni troviamo, nel fabbricato frontale, iniziando da sinistra e dal piano superiore, dieci alloggi occupati come segue:
1 - Appartamentino della Famiglia Russo;
2 - Appartamentino della Famiglia di Mario Papa
la cui moglie è sorella di Antonio Ianniello;
3 - Appartamentino della Famiglia di Antonio
Ianniello, fratello della moglie del confinante Mario Papa e padre di Nicola
(Colino), noto per il mobilificio ad Arco Felice;
4 - Appartamentino della Signora Loprechiacca,
moglie di un maresciallo.
Al piano terra, sempre iniziando da sinistra:
5 – Al confine con il palazzo Gentile, in un
locale sottoscala, abita un signore alquanto enigmatico, detto “Tirtapp”, con
barba e vistosi baffoni. Ristrettissima la sua casa; aprendo la porta
d’ingresso ed a pochi centimetri si ritrova il suo letto composto da
“chiancarelle” sospese tra una parete e l’altra. Naturalmente in questo angusto
spazio non ci sono né luce, né acqua, né servizi igienici. Questo personaggio
esce alle prime luci dell’alba per recarsi alla solita cantina di Pozzuoli; da
qui il suo contro nome “Tirtapp”, per poi rincasare a sera tardi.
6 - Appartamentino occupato dalla signora
“Nanninella”, Famiglia Autieri, poi trasferita a Milano da moltissimi anni;
7 - Appartamentino della signora Calabrese
moglie di Di Donato detto “Ciaciotto”, già lavoratore Armstrong e padre di
Nardiello;
8 - Appartamentino della signora soprannominata
“Assunt ‘a cecata”;
9 - Locali adibiti a falegnameria da Antonio
Ianniello, che abita sopra, e poi di seguito occupati da una signora
soprannominata “a mosc”; ora abitante a Pozzuoli.
Veniamo ora alle due case sulla strada
Miliscola, oggi ripristinate ed occupate dal mobilificio Pafundi:
1 – La prima è abitata da Luigi Costigliola,
detto “Gigino o Furnaro” con sua moglie Sommina, sorella di Colino (quindi
figlia di Antonio Ianniello). Sommina è la seconda moglie del Costigliola; la
prima moglie, morta giovanissima, si chiamava Imma, era cugina di Sommina, ed
aveva delle bellissime lunghe trecce. Gigino ha dodici figli, tutti maschi; due
dalla prima moglie e dieci dalla seconda. Alfonso è il primo nato del secondo
matrimonio, dopo la vedovanza. ed oggi abita al Rione Solfatara; un altro
figlio si chiama Renato ed ha fatto il barbiere; un altro, di nome Enzo, si è
trasferito a Ponza.
2- La seconda casa è occupata dalla signora
Irmtella, moglie di Gaudino Luigi che lavora alla vicina Ferroleghe. Anche Irma
è morta molto giovane.
Ci sono poi alle altre quattro case, oggi tutte
occupate dal mobilificio Pafundi. Al piano terraneo troviamo:
1 – Appartamentino con la famiglia del signor Amedeo
Russo, che lavora agli Stabilimenti di Pozzuoli già Armstrong, con sua moglie
Gemma e i figli tra cui Mario che ci ha lasciati troppo presto, la figlia più
grande che ora risiede Sotto il Monte ed un'altra che si è trasferita a Rimini;
2 - Di fianco, loro vicini, Michele Ambrosino,
l’accalappiacani municipale, con la moglie signora Manuela Arca ed i figli che
ancora oggi conosciamo.
Al piano superiore abitano:
3 - A destra, guardando dalla strada, il signor
Di Domenico che lavora alla ILVA di Bagnoli;
4 - A sinistra, sempre guardando dalla strada,
il signor Lamberti che pure lavora alla ILVA di Bagnoli;
Sulla sinistra dello stretto vicolo d’ingresso
abita una signora detta “Murgetella”; in seguito il locale è occupato da
“mast’Antonio ‘u guardamentario”.
Bravissima persona e abile artigiano che con pelli, cuoio e altri
materiali realizza tutti gli accessori che possano servire per cavalli, asini e
muli. Selle, briglie, paraocchi, sottogola, chiudibocca, redini, frustini, ecc.
Un altro “mast’Antonio”, detto però “’o
mannese” [riparatore e costruttore di carrozze] abita nel cortile in una
casetta di legno, ai lati della proprietà dei signori Costigliola, conosciuti
come “o’ cciracane”; ovvero don Mimì e la moglie Capolongo Carmela.
A questa casetta è annesso un piccolo cucinino,
sempre in legno, che come la casa ha un tetto formato da tegole ondulate di
ETERNIT, naturalmente contaminate dall’amianto, ma nessuno lo sà.
Le stesse tegole coprono il laboratorio del
“mannese” e ancora tutti ricordano che ha costruito, per conto di un facoltoso
personaggio e senza badare a spese, uno di quei carretti per la “Juta a
Montevergine”. Cosa straordinaria i raggi di quel carro erano tutti dello
stesso peso, un orologio svizzero, una maestria fuori dal comune.
Genny ha vissuto in questo borgo che pertanto rammenta molto bene, al contrario di me che solo in poche occasioni mi ci sono inoltrato [3].
Ricordo che a metà degli anni cinquanta giunge
notizia della morte di un bimbo che qui abita; insieme ad altri ragazzi miei
coetanei, e all’insaputa dei genitori, mi reco verso questo vicoletto proprio
quando il bianco carro funebre sta allontanandosi con il suo tragico carico.
Una donna lancia dei confetti e per tutti noi piccoli
è una corsa sfrenata per raccoglierli tra i piedi dei presenti, prima che
finiscano frantumati. Raggiante li porto a casa come trofei e mai avrei
immaginato le grida e i pianti di mia Madre che, costrettomi a buttarli, mi
disinfetta mani e bocca.
Un altro personale ricordo risale al 1959
quando entro a far parte degli scout e durante le escursioni noto che tutti i
giovani esploratori sono dotati di coltelli da giungla. A casa mio Padre
conserva un coltello tedesco da guerra senza fodero, e questa mancanza non mi
permette di portarlo nelle escursioni di squadriglia. Pertanto mi ricordo del
guardamentaio, che si trova in questa “vanella”; con molta pazienza Mast’Antonio
mi ritaglia un fodero a misura del pugnale, di certo non adatto agli usi
scautistici.
Ma veniamo al ricordo, di Genny, per il quale abbiamo iniziato questo scritto.
Una mattina, in questo piccolo mondo, succede il finimondo; dato il sovraffollamento il silenzio non può essere di casa in questa “vanella”, ma le grida di rabbia vanno ben oltre il rispetto accumulato.
Tutto inizia con un fruscio, inizialmente
appena percepibile, che piano piano aumenta di volume con l’aumentare dei
personaggi coinvolti. Ben presto tutti i residenti della “vanella” sono invitati
ad intervenire e così iniziano ad apostrofare e poi a scagliarsi minacciosi contro
“mast’Antonio o mannese”.
Tutti, coalizzati con veemenza, lo accusano di
lavorare di notte disturbando il meritato sonno dei vicini costretti poi ad
affrontare stanchi le dure giornate lavorative che la vita loro riserva.
In particolare sbraitano che durante tutta la
notte più non si dorme perché si sente forte un sibilo. Affermano che il rumore
è quello tipico provocato dalla manovella della forgia che, quanto più forte
gira, più violentemente alimenta la fiamma sui cui si riscaldano i metalli da
lavorare [4].
Il mannese, sentitosi accusato, va su tutte le
furie e, con altrettanto voce alta, grida che non è lui che gira la manovella
della forgia e tanto meno passa la notte a lavorare.
Anzi, racconta, anche lui è infastidito da
questo rumore notturno e, pensando a qualche scugnizzata, le ultime sere, prima
di lasciare l’officina, ha provveduto a sfilare la manovella nascondendola
sotto le lamiere ondulate della tettoia.
Genny, seppure bambino all’epoca dei fatti, giura di ben ricordare il “Mannese” nell’atto di smontare la manovella, dopo lo spegnimento della forgia, e di nasconderla sotto le tegole di Eternit della tettoia; una condotta inconsueta e incomprensibile, anche agli occhi di un bambino.
La discussione sembra stroncarsi, i
partecipanti si domandano l’un l’altro cosa veramente succede di notte e chi
possa essere l’essere, naturale o soprannaturale, che si prende gioco di loro
tutti.
Ma ecco che la discussione ridiventa accesa quando la signora Barca, rispolverando una vecchia questione, si scaglia contro il signor Di Domenico. Lo rimprovera perché permette ai figli di giocare con delle biglie fino a notte tarda; questo la infastidisce perché le grida dei bambini non gli permettono di dormire.
Apriti Cielo! Pronta la risposta del Di
Domenico che per le rime gli fa capire che i “suoi figli” vanno a letto molto
presto ed è quindi impossibile che siano loro a giocare con le biglie.
Ma si sa, i bimbi sono numerosi e sono presenti
in quasi tutte le Famiglie che popolano la “vanella”. Se non giocano con le
biglie giocano con qualsiasi altra cosa trovano, invadendo spazio e privacy
altrui.
E poi, se vogliamo dirla tutta, le tue galline sporcano
fuori casa mia e mai ti sei sognata di pulire…..
E tu! La pronta risposta. Tieni
sempre i fili occupati con il tuo bucato…
Ma che volete farci, questo significa essere
vivi, queste sono le gioie e i dolori del far parte di una Comunità. Così affermava
la Mamma di Genny.
Ella era solita raccontargli “fattarielli”,
parabole, vita vissuta e storie di Pozzuoli, e negli anni spesso ritornava su
ciò che era accaduto in quella “vanella”.
Anche lei, come tanti altri, captando quel
rumore ogni notte si affacciava; continuava ad avvertire la forgia del
“mannese” girare senza mai scorgere Mast’Antonio o qualcun altro che agitasse la
maledetta manovella.
Nei suoi ricordi, messi ora a fuoco da suo
figlio Genny, era convinta che effettivamente qualche cosa di strano succedeva
in quel piccolo borgo.
Genny Casella & Giuseppe Peluso - aprile 2022
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